Il verme e il demone saggio

Il Verme e il Demone Saggio

Midrash racconta sulla parashà di Tetzavè

Hashèm ordinò che le pietre preziose del khòshen e dell’efòd fossero perfette, senza la minima scalfittura. Siccome non è possibile incidere delle lettere per mezzo di uno strumento, perché questo potrebbe scheggiarle, come si riuscì, dunque, a incidere sulle pietre i nomi delle tribù? Tramite lo shamìr. Lo shamìr era una creatura piccola come un chicco d’orzo ed era stata creata l’èrev Shabbàt dei sei giorni della Creazione. Lo shamìr aveva la capacità straordinaria di fendere anche le rocce più dure. I nomi delle tribù furono scritte sulle pietre preziose con l’inchiostro, poi venne fatto scorrere lo shamìr lungo ciascuna delle iscrizioni e le intagliò con una tale precisione che non andò perduta nemmeno un po’ di polvere delle pietre.
Re Shelomò ricevette in dono da Hashèm una sapienza che nessun altro essere umano possedeva. In virtù di questa saggezza di ispirazione divina, il suo potere non era esteso solo agli uomini e agli animali, ma anche agli shedìm (demoni o spiriti malvagi).
Quando re Shelomò decise di costruire il Bet Hamikdàsh, interrogò i saggi: «Com’è possibile tagliare le pietre del Bet Hamikdàsh senza fare uso di uno strumento?»
Essi risposero: «Per mezzo dello shamìr. Moshè si servì di questa creatura per tagliare le pietre preziose destinate all’efòd».
«Come posso trovare lo shamìr?» chiese re Shelomò.
«Consulta gli shedìm» gli consigliarono i saggi. «È probabile che lo sappiano: costringili a rivelarti il segreto»
Re Shelomò cercò di piegare gli shedìm alla sua volontà, ma essi gli dissero: «Non sappiamo dove si trova lo shamìr. Chiedi ad Ashmadày, il re degli shedìm. Forse lui lo sa».
«E dove vive Ashmadày?» domandò Shelomò. I demoni gli rivelarono il nome della montagna in cui Ashmadày aveva stabilito la sua dimora, e aggiunsero: «Ashmadày ha scavato un pozzo sulla montagna e l’ha riempito d’acqua. Ogni giorno, lo chiude con una pietra (per timore che qualcuno possa prendere l’acqua del suo pozzo), poi vola negli spazi celesti. Egli non beve l’acqua del suo pozzo se non dopo aver controllato la chiusura per essere sicuro che sia rimasto sigillato».
Shelomò incarico il suo saggio consigliere Benayàhu ben Yehoyadà di catturare Ashmadày. A questo scopo, gli consegnò una catena e un anello sui quali vi era inciso il Nome divino; inoltre gli diede della lana e degli otri pieni di vino. Benayàhu si diresse verso la montagna indicata dagli shedìm. Egli trovò il pozzo di Ashmadày, scavò una seconda cavità al di sotto, praticò un foro sul fondo del pozzo e trasferì l’acqua nel secondo pozzo. Poi, riempì di vino il pozzo di Ashmadày e coprì il buco con la lana che gli aveva consegnato Shelomò.
La sera, quando Ashmadày tornò, fu sorpreso di trovare del vino nel suo pozzo, sebbene il sigillo fosse intatto. Egli non bevve per timore di inebriarsi, ma aveva molta sete e il suo desiderio di placarla si faceva sempre più pressante: si chinò, bevve e cadde in un sonno profondo.
Benayàhu scese dall’albero sul quale si era nascosto e attaccò la catena intorno al collo di Ashmidày. Quando si svegliò e si accorse di essere incatenato, egli tentò furiosamente di rompere le sue catene.
«Fermati!» gli gridò Benayàhu. «Il nome di Hashèm, tuo Padrone, è su di te!»
Ashmadày, allora, permise a Benayàhu di condurlo da re Shelomò. Durante il cammino, egli provocò distruzione ovunque: spezzò un albero e demolì una casa. Quando passarono davanti alla capanna di una vedova, ella lo supplicò di risparmiarla. Ashmadày ebbe pietà della donna, ma quando se ne andò si ruppe un osso. «Come sono vere le parole di Shelomò!» esclamò. «Una parola dolce spezza le ossa» (egli ammise che la sua forza era stata spezzata dall’umiltà di una povera vedova).
Alla fine, giunsero a Yerushalàyim. Dopo tre giorni di attesa, Ashmadày venne ricevuto da re Shelomò. Il re dei demoni con un metro misurò quattro amòt, gettò il metro ai piedi di Shelomò e urlò: «Ecco la grandezza della tua tomba! Perché ti ostini a conquistare nuovi territori e mi scomodi dai confini della terra per farmi comparire davanti a te?»
«Io sono venuto a disturbarti» gli rispose Shelomò «perché desidero scoprire il luogo in cui si trova lo shamìr. Voglio costruire il Bet Hamikdàsh secondo il comando di Hashèm».
«Lo shamìr non è stato affidato a me» rispose Ashmadày. «Hashèm ha designato come suo custode l’angelo del mare. Questi l’ha consegnato all’uccello Bor (un tipo particolare di volatile), esortandolo a custodirlo con grande scrupolo».
Shelomò ordinò a uno dei suoi servitori di andare a catturare l’uccello Bor, e gli diede a questo scopo una campana di vetro.
Il servitore trovò il nido dell’uccello Bor, ma l’uccello non c’era. Egli, allora, ricoprì con la campana di vetro il nido con i pulcini. Quando l’uccello tornò, vide che l’avevano separato dai suoi piccoli, allora volò via e ritornò portando nel becco lo shamìr, che mise sulla campana di vetro. Subito il servitore si mise a urlare e l’uccello fuggì, così poté prendere lo shamìr per portarlo al re Shelomò.
Quando l’uccello Bor si accorse di aver tradito il giuramento fatto all’angelo del mare, per non aver custodito lo shamìr, si impiccò (Hashèm non aveva affidato lo shamìr agli umani, perché temeva che lo avrebbero utilizzato per scopi malvagi, tentando di fare il mondo a pezzi. È il motivo per cui l’uccello Bor si tolse la vita quando capì che lo shamìr era caduto nelle mani degli uomini).
Benayàhu, allora, interrogò Ashmadày che insegnò al re e ai suoi consiglieri alcune cose molto sagge:
Che gli uomini gioiscono spesso in momenti in cui farebbero meglio ad affliggersi.
Che gli uomini fanno dei preparativi per vivere una lunga vita invece di predisporsi per la vera vita nell’Olàm Habà.
Che molti uomini trascorrono la loro esistenza a perseguire dei tesori nascosti, senza essere consapevoli di ciò che è alla loro portata.
Il Maharàl, secondo il suo metodo di interpretazione simbolica delle aggadòt khazàl, spiega che lo scambio fra acqua e vino effettuato da Benayàhu, così come il fatto di aver incatenato Ashmadày, sono azioni simboliche. Il loro significato è che Shelomò trasformò l’essenza del demone per metterlo sotto il suo dominio. Allo stesso modo, lo shamìr affidato all’uccello Bor, e l’uccello Bor che si suicida, non sono che simboli di concetti metafisici.

Estratto dal Midràsh Racconta ed. Mamash.

Carrello